Lo scenario è quello della redazione di uno dei maggiori giornali nazionali. S.V. è un collaboratore specializzato in cultura, possiede una laurea in scienze politiche, un master in giornalismo e ama curare i propri “pezzi” attingendo da un background intellettuale importante. Anche C.M. è un collaboratore che si occupa di cultura, non ha le stesse credenziali specialistiche di S.V., e non proviene propriamente dal settore: si è sempre occupato di costume e società, lavorando su temi frivoli ma non per questo meno importanti di altri argomenti, considerando l'attenzione che il lettore dà alla cronaca rosa e alla mondanità.
Il referente di S.V e C.M è la stessa persona: un caporedattore incaricato di chiedere, discutere, elaborare e giudicare le proposte editoriali di un freelance e, alla fine, se idonee, pubblicarle. Gli articoli di S.V. sono ben costruiti, interessanti, competenti; quelli di C.M., forse per la minor preparazione del soggetto, lasciano un po' a desiderare sul piano della profondità, utilizzano un linguaggio non propriamente giornalistico, non approfondiscono troppo il tema. Eppure questa disparità qualitativa delle prestazioni dei due collaboratori viene completamente ribaltata sul piano dei risultati editoriali.
C.M. è molto più gratificato di S.V perché il caporedattore pubblica quasi sempre i suoi “pezzi”. S.V., con grande rammarico, nonostante l'efficacia del suo lavoro, si vede spesso rifiutare dei “pezzi”, molto più frequentemente rispetto a C.M. S.V. nota che c'è un qualcosa di irrazionale in queste sperequazione che premia l'uno e danneggia l'altro. Dopo qualche mese C.M. entra, per numero di pubblicazioni acquisite, nella squadra di collaboratori fissi del giornale, S.V. abbandona la testata. Questo evento, realmente accaduto, è uno dei tanti episodi di apparente “ameritocrazia” che avvengono nel giornalismo. Ma in questo articolo cercheremo di dimostrare come i meriti di un giornalista non sono solo quelli della propria prestazione tecnica ma anche quelli della propria prestazione psicologica.
Come ben sa chi ha lavorato da collaboratore esterno ad una pubblicazione, l'attività di proporre e pubblicare articoli su un giornale subisce una procedura che definire “burocratica” è limitativo. La propria creatività, concretizzatasi sul foglio di carta, su una bobina o su un contenuto digitalizzato (nel caso si lavori per una radio o tv) viene sottoposta al vaglio severo e, si presume, esperto di un “giudice”. Questi è il capo redattore (può essere anche un coordinatore editoriale) e personaggio chiave del risultato che desidera ottenere un freelance. In uno dei nostri precedenti articoli abbiamo esaminato la fase iniziale dell'azione del collaboratore, quella “dell'approccio”.
La fase successiva, definibile “dell'accettazione”, è quella più delicata perché, mai come altri tragitti del percorso collaborativo, ha a che fare con la sfera psicologica umana. Trattare la pubblicazione di propri articoli con un capo significa non solo mostrare le proprie creazioni. Il giornalismo non è una professione come le altre e, nel vendere un prodotto informativo, intervengono tutta una serie di variabili che in altre contrattazioni non esistono. Prima fra tutte: la gruppalità giornalistica. Le redazioni sono gruppi di lavoratori della conoscenza raccolti su se stessi (per via della preziosità del posto giornalistico, dell'opinionismo e degli schieramenti politici all'interno di una redazione) e il freelance è, almeno all'inizio, un estraneo.
Ma basta superare il “purgatorio” dell'accettazione per raccogliere frutti che, a volte, nemmeno “gli interni” riescono a raggiungere. Vi sono freelance infatti diventati famosi proprio in virtù della loro svincolo dalla redazione. Il “caronte” di questo tragitto è appunto il caporedattore, che ha il potere di bloccare o lanciare il collaboratore. Superare dunque lo scoglio? Mai pensare di saltare il capo. Lo dice la stessa parola: il collaboratore deve collaborare, per assecondare, capire e intuire la mente del datore di lavoro. Domandate ad un giornalista affermato quanto è stata importante la capacità di scrivere bene o di trovare una buona notizia agli inizi della carriera. Vi risponderà che è invece la capacità di entrare in sintonia con il corpo redazionale l'arma migliore per “sfondare i cancelli”.
Quando si ha di fronte un “capo” è consigliabile 1) stabilire un patto mentale con lui. L'empatia, ovvero l'attività di comprendere e metterla in collegamento con quella altrui, può portare il collaboratore ad essere accettato e considerato in mezzo a tanti altri. Empatia ma non simbiosi e nemmeno sussiego esasperato: nell'assecondare il caporedattore non occorre diventare un “portaborse - signor sì”. Il vostro capo è in fondo un giornalista e, si presume (anche se questa è ormai dote rara all'interno di una redazione), sia persona quantomai acuta nel richiedere da voi uno spirito critico e propositivo.
In questa fase molte delle proprie aspirazioni e ambizioni possono andarsi a fare benedire. Meglio metterle da parte per il momento, torneranno più in là; 2) Mostrarsi, gerarchicamente, subalterni. Un capo è un capo, quindi, percepisce la vostra capacità di “mettersi a disposizione” rinunciando a propri disegni editoriali e invece seguendo le indicazioni della redazione, gli orientamenti politici ecc.; 3) Accettare quelli che sembrano dei colpi bassi. Il caporedattore può adottare dei “trucchi” per mettervi all prova, facendovi fare cose noiose (un box di notizie, anziché un articolo) per valutare la vostra resistenza “al comando”. E' bene assecondare, fin quando si può, questo andamento. C.M. lo aveva capito, ed è per questo che ha vinto la sua piccola battaglia su S.V.